L’omofobia in Africa, un eredità del periodo coloniale
Articolo di Kago Komane pubblicato sul sito Europe Solidaire Sans Frontières (Francia) il 30 agosto 2019, liberamente tradotto da Fabiana Ceccarelli per il Progetto Gionata
A giugno [2019] in Botswana il reato di omosessualità è stato depenalizzato. La maggioranza dei Paesi africani continua tuttavia a condannare questo orientamento sessuale. Eppure alcuni studi dimostrano che nelle società di un tempo, l’omofobia non esisteva.
Alcuni leader africani continuano a ripetere che “nessun Africano nasce gay”, che l’omosessualità è estranea alla cultura africana, e che essa è stata introdotta dagli Occidentali, senza mai fornire la ben che minima prova a sostegno di questa tesi. La storia del nostro continente mostra però che gay, lesbiche e transessuali erano conosciuti durante l’era precoloniale, e soprattutto che erano tollerati.
Sta di fatto che trentadue dei 54 Paesi africani hanno attualmente leggi che condannano le relazioni consensuali tra persone dello stesso sesso. Non si tratta di leggi locali, bensì di testi importati, che generalmente provengono dalle autorità coloniali britanniche, oppure dalla Sha’aria, la legge islamica.
I codici penali delle colonie
In alcuni Stati in cui la legge islamica è applicata in maniera rigorosa, come la Mauritania, alcune zone della Nigeria e della Somalia e il Sudan, le relazioni omosessuali sono punite con la morte. All’epoca delle colonie, nei paesi colonizzati dai Britannici il Codice Penale proibiva la sodomia, qualificandola come “vizio contro natura”. In alcuni di questi Paesi, ad esempio in Tanzania e in Nigeria, queste restrizioni sono state successivamente amplificate e inasprite da nuove leggi.
Ad esempio, nel 2016, il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha firmato una legge che non solo punisce con quattordici anni di carcere le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso, ma vieta anche il matrimonio gay, i club gay, l’adesione ad organizzazioni che difendono i diritti degli omosessuali e proibisce le effusioni amorose tra omosessuali in pubblico. Per queste ultime, i trasgressori rischiano dieci anni di carcere.
In Tanzania i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso sono puniti con 30 anni di prigione. Paul Makonda, il governatore di Dar Es-Salaam, l’anno scorso ha istituito una squadra di sorveglianza che ha il compito di scovare gli omosessuali.
Seminari antigay
In Uganda i pregiudizi sugli omosessuali pare siano alimentati dai cristiani americani di estrema destra. Frank Mugisha, presidente dell’organizzazione Sexual Minorities Uganda, accusa gli evangelici americani di avere tenuto nel Paese dei “seminari antigay” che sono stati la causa – nel 2011 – della morte di David Kato, un attivista per i diritti dei gay: “Loro hanno avuto una gran parte di responsabilità, in quanto ci descrivono come se fossimo meno che umani”.
Nel vicino Kenya, l’Alta Corte di Giustizia ha respinto, nell’aprile 2019, un ricorso intentato da organizzazioni della società civile contro un Codice Penale che punisce gli atti omosessuali tra adulti consenzienti con quattordici anni di detenzione.
Di qui l’importanza della sentenza dell’Alta Corte del Botswana che, l’11 giugno 2019, ha depenalizzato gli atti di omosessualità nel Paese. Questa sentenza va contro la corrente antigay che regna in Africa, e pone la tolleranza, il pluralismo e il rispetto per le minoranze al centro della cultura democratica.
Lontani dalle prestazioni pubbliche
In questa sentenza il giudice Michael Leburu dichiara: “I principi di libertà, uguaglianza e dignità della nostra Costituzione vengono prima di tutto: […] Le minoranze che sono percepite dalla maggioranza come devianti o disadattate non devono essere perseguitate”.
Il procedimento era stato avviato nel 2017 da Letsweletse Motshidiemang, un omosessuale, e da Legabibo, un movimento di difesa dei diritti dei gay in Botswana. Questi invocavano in particolar modo una posizione da parte del governo del Botswana nell’ambito di una recente relazione del Programma delle Nazioni Unite sull’AIDS (Onusida): “La stigmatizzazione e la discriminazione costituiscono grossi ostacoli all’accesso di tutti ai servizi preposti alla cura dell’AIDS. La condanna dell’omosessualità spinge gli individui vulnerabili ed emarginati alla clandestinità, e fa sì che non ricorrano alle prestazioni pubbliche”.
Il Botswana si è quindi allineato ai pochi Paesi – prevalentemente dell’Africa australe – dove le relazioni tra persone dello stesso sesso, dopo il raggiungimento dell’indipendenza, non sono più considerate reato (tra gli altri il Mozambico, l’Angola e il Lesotho). Il Sudafrica ha legalizzato il matrimonio omosessuale nel 2006.
Organizzazioni religiose di estrema destra
Nel 1967 la Gran Bretagna depenalizzava le relazioni omosessuali tra adulti consenzienti; per contro, un’alleanza composta da politici conservatori (perlopiù quelli con un elettorato prevalentemente rurale, come il partito al potere nello Zimbabwe, lo Zanu-PF) e da organizzazioni religiose di estrema destra, svolgeva un ruolo importante nel mantenere o rafforzare le leggi coloniali contro la sodomia. La voce più apertamente omofoba del Paese è la Confraternita Evangelica del Botswana.
Il suo presidente, il pastore Jobe Koosimile, non ha potuto nascondere la sua delusione all’annuncio della sentenza della Corte: “Ciò è deplorevole, ma non muterà le nostre convinzioni. Ora è più che mai importante tendere la mano alle persone che sono nella morsa dell’omosessualità, perché questa altro non è che un peccato e Dio perdona tutti i peccati. Egli non ha mai contemplato la possibilità che possa esistere la minima prova scientifica per cui si possa nascere gay. Anche se ci fossero delle prove, le mie convinzioni rimarrebbero fondate sulla Bibbia, che è contraria a questi atti”.
“Siamo in un anno elettorale”
La popolazione ha ancora molti pregiudizi sugli omosessuali: se alcuni hanno accolto con favore la sentenza dell’Alta Corte, altri si sono scatenati sui social network e hanno urlato che il Botswana rinnega i propri valori: “Serve un referendum, non un gruppo di tre giudici. Questa questione ha delle implicazioni morali, sanitarie e religiose troppo importanti perché siano solo tre persone a decidere per noi”, rivendica un utente del web.
Se il presidente Mokgweetsi Masisi e il suo partito plaudono alla sentenza, l’opposizione elude la questione: “È un tema delicato”, confida un membro dell’opposizione, che preferisce mantenere l’anonimato: ”Siamo in un anno elettorale: non è possibile dire apertamente di sostenere questa sentenza, semplicemente perché essa non è ben vista dai tradizionalisti e dalla maggioranza della nostra comunità cristiana. Ma non posso nemmeno dire che non sostengo i diritti degli omosessuali, perché gli elettori delle aree urbane non sarebbero d’accordo. Alcuni sono convinti che questa decisione inquinerà la ‘nostra’ cultura”.
Numerosi studi recenti dimostrano, tuttavia, che prima dell’arrivo del cristianesimo l’omofobia non esisteva nelle società tradizionali, e che essa si fonda su una moralità europea e non africana.
Matrimoni istituzionalizzati tra donne
Pubblicato nel 2000, Boy-Wives and Female Husband: Studies of African Homosexualities (Ragazzi-moglie e donne-marito: studi sull’omosessualità africana) è una raccolta di studi universitari curata dai ricercatori americani Stephen Murray e Will Roscoe, che dimostra l’esistenza di pratiche omosessuali nell’ambito di 50 etnie locali, appartenenti a tutte le regioni del continente africano.
Questi studi analizzano i matrimoni istituzionalizzati tra donne, i berdaches (transessuali indoamericani) del Madagascar, le identità di genere alternative tra i Swahilis e la commistione dei ruoli di genere attribuiti ai sessi in Africa orientale e occidentale.
I Portoghesi, che sono stati tra i primi ad esplorare il continente, avevano individuato tutta la gamma di relazioni tra i sessi esistenti all’interno delle società africane. Nel 1590 il viaggiatore inglese Andrew Battell scriveva degli Imbalangas dell’Angola: “Vivono come bestie, giacché ci sono uomini che tra le loro mogli tengono anche uomini vestiti da donna”.
Le omissioni degli antropologi occidentali
Secondo Boy-Wives and Female Husband, gli antropologi occidentali hanno spesso rafforzato la leggenda dell’eccezione sessuale africana, non studiando seriamente i comportamenti omosessuali, e non raccontando ciò che osservavano realmente.
Ad esempio, Les Nuer, un’opera dell’antropologo britannico sir Edward Evans-Pritchard pubblicata nel 1940, non menziona le relazioni omosessuali dei Nuers, un popolo del sud del Sudan, relazioni di cui esisteva peraltro un’ampia documentazione. Solo a distanza di trent’anni Evans-Pritchard ha ammesso l’esistenza di pratiche omosessuali nell’ambito della società africana tradizionale: spiega inoltre che i guerrieri Zandi, un popolo del nord del Congo, sposavano spesso ragazzi che ricoprivano il ruolo di mogli “provvisorie”.
L’omosessualità era istituzionalizzata a tal punto che i guerrieri versavano una dote ai genitori del ragazzo. Pratiche analoghe si riscontrano nel Benin e nel sud della Nigeria, mentre il matrimonio tra donne col versamento di una dote esisteva in vari Paesi, dalla Nigeria al Kenya al Sudafrica.
Passare con facilità dagli uomini alle donne
Secondo una relazione dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch pubblicata nel 2013, nel XVIII secolo i Khoisani – in Africa australe – designavano un uomo sessualmente ricettivo agli altri uomini col nome di koetsire, e gli atti di erotismo reciproco tra persone dello stesso sesso, solitamente tra amici, col nome di soregus.
Esisteva anche il sesso tra uomini e donne, ma all’epoca era meno frequente. I Sans – in Africa australe – non avevano un’opinione negativa dell’omosessualità, e hanno lasciato sulle rocce dipinti raffiguranti relazioni anali.
Durante l’epoca precoloniale gli abitanti del Botswana non condividevano i concetti occidentali della sessualità e del genere. Molti uomini avevano rapporti sessuali con altri uomini, ma avevano al contempo delle mogli. L’omosessualità non era considerata l’antitesi dell’eterosessualità, e si poteva passare con facilità dagli uomini alle donne. Alcuni leader tradizionalisti del Botswana di recente hanno riconosciuto che l’omosessualità ha sempre fatto parte della società locale, come indica l’esistenza di una parola in lingua setswana, matanyola, usata per designarla.
C’è ancora molta strada da fare
La sentenza dell’Alta Corte di Giustizia del Botswana non ci sorprende. Negli ultimi anni l’istanza ha rafforzato sempre più la posizione della comunità LGBT nel Paese. A partire dal 2010 sono state vietate le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.
Tshepo Ricki Kgositau, una donna transgender, l’anno scorso ha ottenuto il diritto di vedere il proprio genere riconosciuto ufficialmente.
Il Botswana ha ancora molta strada da fare prima che gli omosessuali possano godere di una completa uguaglianza. Per loro il matrimonio è sempre vietato, così come l’adozione congiunta, e non hanno il diritto di entrare nell’esercito. La comunità LGBT tuttavia sta uscendo dall’ombra, ed è piano piano sempre più accettata.
Testo originale: L’homophobie en Afrique, un héritage colonial